Le cronoscalate degli appassionati “seriali” narrano storie di passione, di amicizia e di umanità.
E ogni rapporto viscerale, vero che si rispetti ha bisogno di quel pizzico di follia che anima la vita di ogni personaggio coinvolto.
E’ questa pazzia che mi ha spinto in un soleggiato weekend di aprile del 2011 a prendere la mia auto e ad avventurarmi, da solo, in un remoto e minuscolo paesino dell’ Austria, Tulwitz per l’ esattezza.
Ai più questo nome non dirà granché, forse se dico Rechberg tutti capite e fate un cenno di approvazione con la testa.
Il pilota che mi ha spinto fin lì è l’altro protagonista di questa assurda storia, fatta di chilometri, fango e calore umano.
Un colpo di testa, una decisione presa all’ improvviso ed è stato così che ho preso uno zaino, qualche abito pesante, qualche panino, una coperta, la mia fida reflex e sono partito.
Di notte in autostrada l’ atmosfera è rilassata, ovattata e ti da tempo per assaporare la musica, unica compagna di viaggio in questa trasferta fuori da ogni previsione ed il bello di questi viaggi sono le albe, che dal nero profondo fanno apparire paesaggi umidi, caldi, che hanno il sapore di casa ovunque ci si trovi.
Qualche sosta, un caffè condiviso in silenzio con qualche camionista assonnato, con l’ immancabile asciugamano stropicciato buttato velocemente su una spalla curva dalla fatica del tanto guidare che subito si riparte, i chilometri da fare sono tanti.
Le montagne dell’ Austria alle prime luci dell’ alba sono ordinate, disposte in modo quasi logico, lussureggianti del verde acceso della primavera ed in questo panorama mai fermo e scontato, si arriva in quel piccolo e sperduto agglomerato di case.
La segnaletica dice che la meta è vicina. I carrelli e le auto da corsa dicono che ci sono, finché non è paddock. La prima parte della mia avventura si può considerare chiusa.
Parcheggio, tra i camion, le case e il fango dei terreni arati e umidi dalla notte passata e mi aggiro tra tende, camion, gazebi, furgoni, cerchi, gomme e odore di benzina.
Il venerdì lo passo a camminare su e giù cercando il vero motivo di tanta pazzia ma nulla.
Arriva la sera, un giro nei dintorni con il riscaldamento dell’ auto a palla, parcheggio in una stradina poco trafficata, sveglia puntata alle 6 e si dorme. Sorrido, domani è il gran giorno.
Il sole è alto e fortunatamente caldo e riesce bene a togliermi i tremori della notte umida.
Mi incammino, rubo un elenco iscritti e cerco una posizione ottima per fotografare e per godermi uno spettacolo così diverso dalle nostre, pur bellissime, salite italiane.
Scorre veloce l’ elenco tra traversi, risate del pubblico e sigarette. Persone simpatiche e cordiali gli austriaci, un paio di ragazzi mi adottano e scherziamo insieme in un inglese stentato e improvvisato.
Ma ora silenzio… eccolo, arriva prima un rombo incredibile poi appare , grintoso e determinato aggredisce le due semicurve in lontananza, con lei, la sua creatura, lucida e scintillante. Un problema ad un cambio di marcia ma la “Remus kurve” va liscia ed il mostro scarica marce e cavalli sull’ asfalto rugoso e piatto come un tavolo. Stessa storia in prova 2, stavolta al tornante del “Prollhofer”, con l’ asfalto reso viscido da un potente e rapido acquazzone.
Finiscono le prove e scendo di nuovo al paddock, ma stavolta lo vedo, uno spilungone assorto nei suoi pensieri, stretto nella sua tuta bianca e nera.
Mi vede e il suo sorriso si allarga ed una volta incontrati mi abbraccia come si abbraccia un amico di infanzia, in una maniera più italiana che nord europea.
Parliamo, gli racconto della mia pazzia, gli dico che quella era l’ unica occasione durante l’ anno in cui avrei potuto vederlo correre e che per nulla al mondo mi sarei perso i primi passa della sua “bimba”. Continuiamo a parlare, mi racconta dei piccoli problemi di gioventù, della sua ruggine dovuto ad un anno di fermo obbligato.
Ricordo la sensazione, lo sguardo fisso, timido e sincero, quel suo stringere le spalle mentre temporeggiava e cercava le giuste parole nel suo italiano forzato ma simpatico, meravigliosamente suo.
Lo lascio ai suoi impegni, mi ringrazia una, due, altre dieci volte, mi abbraccia di nuovo e se ne va, con la sua andatura dinoccolata e la testa stretta tra le spalle.
Passa anche il sabato sera tra un panino, una merendina, l’ umidità della notte e un ubriaco in canotta che canta chissà cosa all’ oscurità.
E’ domenica, cambia la curva ma non la storia, le due manche di gara e la nuova nata con i suoi inevitabili problemi. Scende il serpentone, dal’ oblò del finestrino sento urlare il mio nome e vedo una mano che si dimena in un saluto frenetico e fugace.
Butto reflex e adrenalina in auto, un’ ultima stiracchiata alla schiena provata dal “letto” improvvisato delle notti passate e riprendo la lunga strada che mi riporterà a casa. La notte scende molto più veloce di quanto la strada corra sotto la mia auto, la stanchezza c’è ma anche la soddisfazione.
2000 km, tre notti in auto, il freddo, la salita a piedi, la pioggia valgono bene Georg Plasa e l’ esordio europeo della sua Denise.
Non c’è incontro, chiacchierata, mail, o telefonata con Georg che non mi abbiano lasciato del buono perché il suo grande merito era di essere semplice, umile, di essere un uomo vero e mai sopra le righe.
Un piccolo pezzo di cuore è andato con lui ma nulla potrà mai togliermi i ricordi e il calore che riusciva a donare.
Gianluca Galiè
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